martedì 18 maggio 2010

The importance of being Jonathan.

Giuro che poi la smetto, però l'overdose lethemiana del Salone del libro mi ha riportato alla mente una cosa che volevo scrivere da un po'.

C'è stato un periodo della mia vita in cui apparentemente ogni libro leggessi aveva un autore (e fin qui, direte voi) di nome Jonathan. Ok, non OGNI libro, ché magari ne leggo un po' di più, ma di sicuro una percentuale considerevole.

Jonathan Lethem. Va be', lo sapete: tutti

Jonathan Ames. Sveglia, Sir, Veloce come la notte

Jonathan Safran Foer. Ogni cosa è illuminata

Jonathan Franzen. Le correzioni, Come stare soli

Jonathan Carroll. Mele bianche, Zuppa di vetro

Jonathan Coe. Non tutti, ma comunque troppi per star qui a far l'elenco.

Mi manca (ma non troppo) solo Jonathan Littel, in pratica.

Sono tutti scrittori viventi, giovani in un'accezione ampia del termine, tutti americani tranne Jonathan Coe. Alcuni di questi li continuo a leggere, altri li ho messi da parte.
Cosa abbia condotto a una tale coincidenza mi incuriosisce, non lo nego.
Prima di loro, dovessi citare qualche romanziere, mi verrebbe in mente solo Jonathan Swift (la connessione, almeno nel caso di Lethem e Carroll, ha molto senso).
Da internet apprendo che Jonathan significa "dono di Dio", e dirvi a chi secondo me si applica letteralmente questa definizione mi pare superfluo...

Negli 1985 1,254% dei bambini nati negli USA si chiama Jonathan, ma nel 2008 crolla allo 0,591% (dati presi qui).

Bisogna intervenire.
Non in Italia, però. L'accostamento del nome a cognomi nostrani non mi suona proprio (to' Jonathan Pautasso, per dire, non mi pare destinato a entrare negli annali della storia) e tutt' al più mi parrebbe un nome da tronista.

So let me lead an international campaign: Name your son Jonathan, and there is a good chance he'll be a writer.

sabato 15 maggio 2010

Chronic City

Maggio, andiamo, è tempo di Salone (di nuovo) del libro. Anni passati a chiamarlo salone quando era la Fiera, e appena impari cambiano di nuovo il nome.

Ogni anno all'annuncio del programma del salone vado sul sito e cerco i nomi dei miei scrittori preferiti. E parto da lui.
Quest'anno senza nemmeno cercare, il nome era lì, tra i grandi ospiti.
Inutile dire che decido di affrontare la massa del sabato pur di essere all'incontro.

Sabato, h 12, sala azzurra.

Avendo già autografato e letto l'ultimo romanzo, Chronic City, mi porto dietro You don't love me yet e l'amato The fortress of solitude.

Come fan, mi colloco a metà tra una groupie letteraria e una fan adolescente di Robert Pattinson, più groupie letteraria comunque.

Le amiche che mi accompagnano sopportano il fatto che io voglia mettermi in coda con mezz'ora di anticipo per essere in prima fila solo grazie allo spettacolo che offro, un mix di ansia, logorrea e sovraeccitazione.

La giornata comincia benissimo, mentre seduta (compostamente) alle biglietterie, lui mi passa accanto e vado in iperventilazione. Mi stupisco come sempre che non giri circondato da folle di fan urlanti come la sottoscritta.

Nella Sala azzurra, finito il dinamico incontro sulla modernità di Baruch Spinoza (!), finalmente riesco a entrare e piazzarmi in terza fila, la prima senza odiosi cartelli "Riservato". I posti delle prime file continuano a essere vuoti e quando sto ormai pensando che sia una sorta di cordone sanitario messo per tenermi lontana e che paventati ordini di restrizione nei miei confronti non siano così improbabili, Mattia "Il saggiatore" Formenton in persona, toglie i cartelli dicendo che erano posti per la casa editrice, ma non ha senso lasciarli vuoti. Con un agile tuffo carpiato e lancio dello zaino mi sistemo in prima fila.
Inizio a fare la secchiona disturbando gli astanti (lo so sono insopportabile).

Per farla breve, l'incontro comincia e lui è molto in forma. Come dice il giovane Holden, quando leggi i suoi libri vorresti che fosse il tuo migliore amico, per potere prendere su il telefono e chiamarlo per parlarne.

Passa il tempo, e temo che la domanda che mi sono preparata da circa due settimane venga bruciata dal critico letterario che conduce l'incontro. Arriviamo alla fine e il tema non è stato toccato nemmeno di sfuggita: si è parlato di percezione, di realismo e di cani.
Il turno per la prima domanda me lo brucia quello che da lontano mi sembra Marco Philopat, ma potrei sbagliarmi, che chiede perchè nel romanzo non si parli della cocaina che sicuramente si consuma alle feste del sindaco del romanzo (sic).
Dopo la risposta sulla percezione allucinata dovuta al consumo di maria dei protagonisti tocca a me.
Visto che c'è la traduzione simultanea opto per fare la domanda in italiano, anche perchè temo che nello stato di agitazione in cui sono il mio inglese sia regredito a "the pen is on the table".

Riassumendo la mia domanda (infarcita di "title dropping" per sottolineare il fatto che ho letto tutto quello che ha scritto) verte sul tema del salone, la memoria, sull'amnesia (tema ricorrente nei romani Amnesia Moon e Gun, with occasional music e nel volume di cui è stato editor The Vintage book of Amnesia) e sulla costruzione e ri-costruzione della memoria personale (in Motherless Brooklyn e The fortress of solitude) grazie alla cultura pop.

Quindi:

Mi dice "Great. Thank you for your question".

Qui il mio cervello va in freeze per 5 minuti, comunque ho preso appunti e presto inizierò a divulgare la risposta, che, credetemi, era piena di concetti fondamentali sulla cultura postmoderna. Sì è pure infervorato a rispondere.

Ma comunque, mi ha ringraziato, ha sottolineato come in effetti fosse giusto per lui essere al salone quest'anno visto il tema, e che effettivamente il rapporto memoria-amnesia è fondamentale nella sua opera, come anche la cultura composta da fumetti, cinema e dischi dei Rolling Stones.

Prima di uscire l'addetta stampa del Salone mi chiede di raccontarle l'epico Marathon reading alla BookCourt, poi chiede il mio nome e penso che dopo la figura per i posti pure lì riconoscano ormai il mio ruolo di stalker ufficiale.

* update: in realtà mi ha chiesto il nome per grassettarmi in un articolo sull'incontro, (the ego is linkable in the glove compartment)

Alla fine dell'incontro mi catapulto allo stand Saggiatore dove sta firmando le copie del suo libro. In coda, una ragazza mi guarda e mi dice "Ah, volevo farti i complimenti per la domanda, preparatissima, mi hai lasciato senza fiato".
E già.
Quando arriva il mio turno, gli chiedo di firmare le copie dei libri precedenti perché l'ultimo me lo aveva già firmato a NY, gli faccio i complimenti per la resistenza e prima che me ne vada mi ridice:

"Thanks again for your question"

Ora.
Io non sono persona da lasciarsi andare a facili entusiasmi, lo sapete.
Però per citare una frase dal suo vecchio sito:

The ego is huge in the glove compartment.


Ah, lui è JONATHAN LETHEM


lunedì 10 maggio 2010

Piccola storia di provincia


La Giù sotto il faro della stazione (o la torre civica)

C'era una volta una bambina che lo sport l'aveva sempre visto in televisione, anche perché viveva a Torino, e quindi o Juve o Toro, ma allo stadio neanche a parlarne.
A dieci anni la bambina si trasferisce in provincia e scopre che la nuova città ha una squadra di pallavolo e, sarà stato il '91 o il '92, scopre che quella squadra, nonostante sia in A1, non gioca in un palazzetto vero, ma in una specie di tendone da circo a strisce biancazzurre praticamente dietro casa sua.

Succede che va a vedere una partita. Succede cha da buongustaia in erba sa che uno sport giocato da 12 individui alti più di un metro e ottanta e portatori sani di addominali ha il suo perché.

Da allora iniziano più di dieci anni di abbonamento, di partite la domenica sera o il sabato pomeriggio. Di coreografie dei Blu Brothers che son le più fighe, niente da dire.

Anni di andate e ritorni a piedi dal palazzetto dello sport, quello vero, finalmente, ma a San Rocco Castagnaretta, ché alla fine è vicino uguale. Di andate e ritorni con la macchina, nell'autoscontro per uscire dal parcheggio fangoso.

Anni di chinonsaltamodeneseè - è.

Di anni in cui abita a Torino e allora l'abbonamento a malincuore non lo fa, ma alle partite importanti c'è.

Di giocatori che si ricorda per i capelli (Lucchetta), perché sono stati la sua prima cotta sportiva (Jan Hedengard), quelli che è contenta se tornano al palazzetto anche se ora hanno la panza (Ganev), quelli che prima li mandava a f****lo perché giocavano contro di noi e poi se li trova in squadra (Sartoretti), quelli che continua a mandarceli perché così deve essere (Bernardi), giocatori che han tradito e allora basta (Papi) o quelli che applaudiva anche se portavano ormai una maglia diversa. Quelli dell'autografo sul poster ufficiale, che lo andava a chiedere subito dopo le partite vinte bene. Quelli che incontrava mentre portavano a spasso i figli sotto i portici, perché la cosa che le è sempre piaciuta di più è che fossero così normali e accessibili.

Di tanti e tanti campionati finiti al primo posto in classifica e persi ai playoff, che pensi perché non funziona come nel calcio che a quest'ora...

E arriva il 2010 e Cuneo è in finale, e mentre ha negli occhi ancora le partite delle scorse finali contro Treviso, sa che quest'anno o la va o la spacca, buona la prima, solo la bella.

E quando inizia la partita per un momento ha paura perché Trento che ha già vinto tutto gioca da paura, mentre Cuneo sembra essersi assentata un attimo per prendere il caffè.
Poi Cuneo torna, e non ce n'è più per nessuno.

Grazie, Cuneo. Formidabili quegli anni, e tutti quelli che verranno.
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