Parliamo di estate.
Parliamo di caldo, vestiti leggeri, sandali.
Parliamo di diluvi torrenziali e improvvisi.
Il primo l'ho preso dopo il bike pride, magnifica biciclettata in numerosa compagnia. Finito il giro, gonfiati copertoni esplosi, due chiacchiere con gli amici e poi via.
Tempo di arrivare in Piazza Vittorio e rispondere a una salvifica telefonata della mamma, che ti ritarda giusto il tempo di non essere alluvionati ai Murazzi e riesco a buttarmi nell'ultimo angolo di portici. Ad aspettare. E aspettare. E aspettare che spiova. Se spiove. Forse sì, forse no. Qualche eroe parte lo stesso, bagnandosi fino al midollo, immagino.
Quando, dopo un'eternità, il diluvio concede una tregua, parto lo stesso, affronto le cascate a bordo pista ciclabile sul Po e in qualche modo arrivo a casa.
Il secondo è stata colpa mia in effetti.
Ieri tornavo a casa da un seminario e al solito leggevo, sul 18. Il cielo plumbeo sopra, non prometteva niente di buono. Ma io, ingenua e fiduciosa, ma soprattutto senza ombrello, pensavo di farcela.
Ma non consideravo il fattore perturbante. E non in senso atmosferico. In senso letterario, semmai.
Michael Chabon.
Come uno scrittore di Washington che sta in California possa interferire con la mia grigia esistenza è presto detto e giustificato da una semplice cifra: 821.
Le pagine di Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay in edizione BUR.
E per essere precisi la lettura di quelle tra 285 e 308.
Che nell'ordine mi fanno saltare la fermata, scendere nel nulla in via Passo Buole (senza un balcone, una tenda o una pensilina sotto cui ripararmi) e prendere in pieno il diluvio universale di ieri sera.
Io sono arrivata a casa fradicia.
Michael Chabon e le sue 821 pagine stanno ad asciugare sotto un paio di dizionari.
Ah, e il libro è pure della biblioteca.
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